Racconti

La figlia del postino [chapter 1]

Dicevano che suo padre, sì proprio il postino, se la facesse con una e che fosse scappato di casa. Noi non sapevamo neanche cosa volesse dire. Suo padre, illustre portatore di plichi e missive, colui che nessuno nel nostro piccolo paese poteva non conoscere, lui sì, “se la faceva con una“. Cosa faceva? E soprattutto perché? Comunque non doveva essere qualcosa di bello a giudicare dallo sguardo di Antonietta. La sua espressione cupa e addolorata tradiva il suo grande tormento. Noi non ne capivamo il motivo, anzi ciò rafforzava l’accanimento che tutti sembravano avere nei suoi confronti. Antonietta rappresentava infatti il classico capro espiatorio, l’anello debole a cui tutti si appigliano pur di non sprofondare, il classico sfigato su cui indirizzare tutte le proprie frustrazioni. Due serie di fattori comportavano questo atteggiamento verso la povera bambina: da una parte le sue origini forestiere. Suo padre, infatti, come ogni buon postino all’epoca dei fatti, era stato trasferito da qualche zona indefinita del sud Italia nel nostro paesino. A giudicare dalla villa che aveva acquistato nella periferia del paese, egli evidentemente, almeno prima del fattaccio, pensava di mettere radici nella sua nuova destinazione. E sempre a giudicare dalla medesima villa, la professione di postino era molto ben pagata a quei tempi. Il forestiero, lo straniero, “su strangiu” era sempre visto con un certo sospetto, soprattutto in una piccola comunità raccolta attorno al circolo parrocchiale. Le pettegole patentate non solo avevano anticipato l’arrivo del nuovo postino, con la moglie ed un’unica figliuola, ma sapevano tutto sul suo conto, da chi avesse acquistato l’immobile, a quale prezzo, il metodo di pagamento, nonché l’esatta ripartizione delle rate e le relative scadenze. Inoltre si vociferava che nel seminterrato della villa il curioso portalettere avesse fatto impiantare uno studio insonorizzato per coltivare la sua singolare passione per la musica. Questo era un particolare che interessava particolarmente l’opinione pubblica, tanto da aver spinto lo stesso curato a presentarsi nella casa dei nuovi arrivati con un carico di domande, alcune piuttosto personali ed inopportune. Ma il postino si professava ateo, per cui non aveva assecondato affatto l’atmosfera da confessione impostagli dal solerte inviato dal Signore e aveva glissato con risposte vaghe e controllate. Ciò, in linea di massima, aveva decretato il non assimilamento e la non accettazione del nuovo nucleo familiare che aveva finito per essere considerato come inviato dal demonio, sia per la sua aperta confessione atea, sia per la mancata disponibilità nello spiattellare i propri segreti e nel condividerli con la collettività. Inoltre iniziarono a circolare voci e miti su riti indirizzati allo stesso demonio in quella cantinetta di cui nessuno sapeva nulla. Si parlava di sonorità rock e, cosa che aveva impressionato il nostro immaginario di sbarbatelli, sacrifici umani con l’assoluta predilezione per bambini. Come noi. Insomma, il monito era assoluta distanza verso quel luogo del Male. E, di conseguenza, verso i suoi abitanti.
Ma c’era anche un altro motivo che sanciva l’isolamento sociale della bambina: Antonietta era brutta, ma non di quel brutto che si può rifugiare in un fascino dato dalla forte personalità e dalla sicurezza in se stessi. Lei non era spavalda o pacatamente conscia di sé, al contrario era timida e impacciata, caratteristiche queste che, oltre al suo aspetto fisico, la rendevano la vittima sacrificale adatta per ogni bulletto che volesse dimostrare la sua forza. Lei taceva e si stringeva a sé con lo sguardo basso. Le prime volte aveva tentato di guardarsi attorno per trovare uno sguardo amico, qualcuno a cui si potesse aggrappare, qualcuno che in qualche modo la potesse salvare da quel destino, ma i compagni, intuendo la supplica nel suo gesto, preferivano distogliere lo sguardo per non avere grane, oppure sfoggiavano la loro più crudele espressione dimostrando piena solidarietà al boia. Solo più tardi scoprii che, dietro quel viso panciuto denso di lentiggini, si nascondeva una sensibilità talmente complessa che aveva iniziato a covare dei sentimenti di amore verso i suoi aguzzini. In particolare di uno di loro, quello che la maltrattava con maggior vigore, lei si era proprio invaghita. Questa sorta di sindrome di Stoccolma portò ad un peggioramento della sua già disperata condizione, perché la indusse a mutare il suo comportamento e le sue reazioni verso le angherie del suo persecutore. Inspiegabilmente, infatti, Antonietta diventava tutta rossa e iniziò a reagire cercando di rispondere ai diversi attacchi che le venivano inferti. Non ho mai capito come le fosse venuto in mente che Vincenzo, il compagno ripetente e molesto per cui aveva un debole, la provocasse in quel modo perché in realtà aveva un interesse nei suoi confronti. Non so come il suo cervello, di solito acuto e molto ordinato e razionale, avesse avuto questo inciampo di percorso. Un inciampo che le costò parecchio perché l’aveva condotta in un sentiero tortuoso che non tornava di certo sulla strada maestra. In realtà non si sapeva proprio dove portasse. Eppure lei lo aveva imbucato.
Conobbi meglio Antonietta, e per questo posso permettermi di fare quelle che sono più che delle supposizioni, perché l’insegnante decise di farla sedere proprio nel mio banco.

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