Luogo: Venezia >> Arsenale / Giardini della Biennale
Curatore: Ralph Rugoff
Artista: Martine Gutierrez (Germania)
Titolo: Body en thrall
Dal 9 Maggio al 24 Novembre 2019
“Sono stata spinta a chiedermi: come si forma, si esprime, si apprezza e si soppesa l’identità come donna, come donna transessuale, donna latina, donna di origine indigena e come artista? È quasi impossibile arrivare a qualsiasi risposta definita, ma per me questo processo di esplorazione è squisitamente vivificante“.
Con queste parole Martine Gutierrez ha commentato “Indigenous Woman“, la sua serie esposta lo scorso autunno alla Ryan Lee Gallery di New York con una pubblicazione di 146 pagine che simulava una rivista di moda in cui l’artista ricopriva diversi ruoli: modella, art director, fotografa, designer di abiti, stylist e grafica.
Ma chi è Martine Gutierrez e come mai il suo interesse si focalizza su queste tematiche?
Ebbene, Martine Gutierrez è un’artista transgender che nasce a Berkeley, in California, nel 1989, da genitori di origine guatemalteca. Cresce nel Vermont per poi trasferirsi definitivamente a New York dove attualmente vive e lavora.
Le sue origini e la sua transessualità la spingono a incentrare il suo lavoro sul genere e sulla cultura indigena. In particolare l’artista critica l’iconografia bianca, occidentale, a suo parere ancora troppo prevalente.
A Venezia Martine porta alcuni degli scatti di Indigenous Woman, citando i numeri di pagina della pubblicazione originaria e attribuendo quindi loro una sequenza e una serialità. L’artista si ispira a divinità azteche precoloniali, in particolare impersona Tlazolteotl (dea della lussuria), Xochiquetzal (dea della bellezza) e Chin (divinità maschile associata all’omossessualità). Nonostante i suoi personaggi abbiano dei richiami arcaici, la forma in cui vengono trasmessi è quella da rivista patinata, sono invitanti, fissano lo spettatore con uno sguardo ammiccante.
L’ironia è evidente sia per questo simil-inganno, sia per la presenza di manichini che circondano l’artista, sia per i grossi meloni usati a mo’ di seno femminile. Indigenous Woman, che a Venezia prende il nome di “Body en thrall“, è dunque un’esplorazione ironica delle radici etniche dell’artista, una chiara parodia della feticizzazione delle identità di genere ed etniche.
A me il suo lavoro ha colpito molto, soprattutto alla luce di questo approfondimento. Voi che ne pensate?
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